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Il caffè

print30 settembre 2009 09:51
Pianta del caffè

Pianta del caffè

(AGR) Stradine tortuose, piccole capanne di fango, ed in mezzo una casetta con abbaini, tetto giallo e finestrelle incorniciate di rosso. E’ il centro di Harrar, remoto villaggio sull’altopiano etiope, una delle città più leggendarie dell’Africa, per secoli vietata agli stranieri e ai cristiani: coloro che per sventura vi capitavano venivano impiccati o lasciati fuori dalle mura a far compagnia alle iene. Ancora oggi vi si parla un singolare dialetto, nato dal suo isolamento.
Nel 1885 sir Richard Burton (omonimo del famoso attore, ndr), l’Inglese che viaggiava per arrivare ad individuare le sorgenti del Nilo, l’attraversò vestito da Arabo. 30 anni dopo ad Harrar si installò Arthur Rimbaud, il quale andò ad abitare in quella strana casetta, che ancora oggi sembra uscita da una favola. Rimbaud, lasciando Parigi, aveva detto che sarebbe approdato in una terra “di climi perduti” da cui sarebbe tornato “con membra di ferro, pelle scurita, occhi furiosi”. Era spinto alla ricerca di nutrimento per la sua fervida immaginazione, dall’amore per il rischio ma anche da una necessità economica: in Etiopia voleva fare il mercante di armi, di pelli ma soprattutto di caffè, importante fonte di reddito.
Infatti proprio Harrar è stata la culla primordiale del caffè, da cui si è diffuso in tutto il mondo, e le sue tracce sono state ripercorse, in un viaggio affascinante e meraviglioso, dall’Etiopia allo Yemen, dall’India all’America Latina, nel libro “La tazzina del diavolo. Viaggio intorno al mondo sulle Vie del caffè” del giornalista Stewart Lee Allen (edizioni Feltrinelli).
Nel paese dove il poeta delle “Illuminations” si era rifugiato, il caffè, oggi considerato una “droga ricreativa”, veniva omaggiato come una mistura “sacra”, in grado di alterare le capacità mentali. Consumato, a volte, in deliziose combinazioni con le foglie della pianta stupefacente qat, stimato prezioso come oro, per la sua carica adrenalinica assumeva significati mistici ed esoterici. Serviva per curare molte malattie, dal raffreddore al mal d’orecchie ma soprattutto era un potente afrodisiaco, dato che i chicchi ricordano la forma degli organi sessuali femminili e durante le cerimonie in Europa occidentale la tostatura era abbinata al burro utilizzando un bastone chiamato “dannaba”, che significa “pene”. Immersi nell’acqua, invece, sono simbolo di morte e dalla scura brodaglia possono scaturire lampi, fulmini e vere maledizioni.
Un volto “nero”, inquietante e pericoloso, quello che il miracoloso liquido per secoli mantiene. Per questo suo tratto demoniaco, in Arabia, dove è stato portato dalle carovane di schiavi che si nutrono dei chicchi pestati e amalgamati in palline, si scatenerà una delle prime, violente repressioni contro il diabolico infuso. Uno dei porti in cui il caffè arriva, e che trasforma con il suo commercio in fiorentissima sede di scambi, è quello di Al – Makkha, da cui l’altro nome della bevanda, Mocca. Ma, in una torrida notte dell’agosto 1511, il capo della polizia religiosa della Mecca notò alcuni uomini che sorbivano una bevanda che gli sembrò inebriante e simile al vino, vietato dal Corano. Con gran clamore si mise in piedi un processo in cui i difensori affermavano che il caffè nulla aveva a che fare con l’alcool ma aveva le stesse proprietà tonificanti dell’aglio, ma niente da fare, l’equivalenza non resse e fu persa la battaglia legale. Alla Mecca dilagarono le offensive dei sabotatori: i sacchi di caffè vennero bruciati, le ceneri disperse al vento, mentre venivano bastonati i più irriducibili bevitori. Intanto, come l’Araba Fenice, il caffè risorgeva e raggiungeva il suo apogeo nell’impero ottomano.
Nel 1555, una coppia, di nome Hakm e Shams, aprì ad Istanbul un locale dove si mesceva lo scuro liquido, che veniva arricchito con pepe, oppio, zafferano, oppure con hascisc, miele o marijuana. Il micidiale composto e la presenza di giovanissime prostitute contribuì a far ribattezzare i locali della città “caffè dell’amore”. Dalle stelle che indubbiamente vedevano i consumatori di quelli micidiali pozioni, alle stalle della persecuzione. Un’altra offensiva colpisce la stregonesca mistura: nemico giurato è il sultano Murad IV che nel 1623 rade al suolo i caffè e picchia gli avventori, ma non finisce qui: nel Settecento il caffè turco conquista il regno di Prussia, ma Federico il Grande lo mette al bando perché indebolisce la mente ed il corpo dei suoi soldati.
Altrettanto contrastato l’insediamento in Francia: l’aveva fatto provare a Luigi XIV l’ambasciatore turco, ma il re lo aveva definito “disgustoso”. La duchessa d’Orléans lo aveva paragonato alla fuliggine e Madame de Sévigné aveva scritto che c’erano due cose impossibili da mandare giù per un Francese: “il caffè e la poesia di Racine”. Ma alla fine del secolo dei Lumi la caffeinomania travolge la Francia a livello esponenziale: si dice che Luigi XV spendesse l’equivalente di 15mila dollari all’anno per soddisfare la richiesta di caffè della sua famiglia, soprattutto della figlia, e sarà proprio un Francese di nome Gabriel de Clieu che porterà il chicco magico nel Nuovo Mondo dove la bevanda ha un’accoglienza entusiastica.
Però il caffè, con la sua aura di potente stimolatore erotico, quando approda in Inghilterra si fa invece una cattiva fama. Essicca i fluidi corporali, rende impotenti, secondo voci maligne di corridoio. Ecco allora una brusca reazione da parte del gentil sesso londinese che, in una petizione di sette pagine, sostiene che “ i gentiluomini inglesi sono sempre stati i più valenti di tutta la storia della cristianità. Ora, invece, il caffè li ha prosciugati e non hanno più forze vitali da impiegare in niente”.
Nonostante le recriminazioni, però, il successo della corroborante sostanza non si arresta e i caffè diventano luoghi dell’esercizio del potere, trasformandosi, come i Lloyd’s Coffeehouse, da posti dove ci si incontra per diporto o per discutere di affari in sedi di alcune società tra le più potenti del mondo, oppure diventando i veri templi del sapere per artisti e scienziati, come il Grecian Coffeehouse nel quale era solito recarsi Isaac Newton o il Will’s Cafè, ritrovo di scrittori come Jonathan Swift e Alexander Pope. Un giovanotto di nome Richard Steel, grande frequentatore di pub e caffè, fa la sua fortuna pubblicando una compilazione settimanale dei pettegolezzi più interessanti che riesce ad orecchiare, ed ecco che nei caffè nasce il primo giornalismo dell’epoca: infatti, secondo l’autore del libro, quando una società viene a contatto con questa bevanda esprime le sue energie migliori, e questa è anche l’idea del celebre storico Jules Michelet, il quale afferma che la moderna civiltà occidentale è nata dal caffè e che ha il potere di salvare dalla perdizione dell’alcool.
Ecco quindi che se fino al 1650 il caffè era ancora una bevanda sconosciuta in Europa, 50 anni dopo si è imposto tra le classi aristocratiche, dato che il suo uso rende sobri e stimola l’intelletto e non a caso è nato all’interno della cultura araba, dominata dall’astrazione e dedita alla matematica, scrive Wolfgang Schivelbusch in “Storia dei generi voluttuari” (Mondadori editore). E’ la borghesia, sono i suoi intellettuali e scrittori a decretarne il successo, anche perché non si tratta solo di una bevanda scura e dal gusto amaro, ma anche di un luogo ed un tempo precisi, quelli del ritrovo e dell’incontro tra gli uomini d’affari, di lunghe conversazioni e dispute, che dall’Inghilterra si diffonde presto negli altri Paesi europei. Al caffè gli Illuministi lombardi dedicano persino una rivista (1764 – 1766) che cerca di svecchiare la cultura italiana, mentre nei caffè londinesi si incontrano personaggi come Daniel De Foe o Laurence Sterne: le donne non sono ammesse.
Nel Settecento la Coffeehouse è ritrovo abituale dei giovani collaboratori di giornali satirici e umoristici e l’amaro liquido stimola la critica corrosiva, là dove birra e vino inducono invece all’euforia e al torpore; ecco quindi che il locale dove si sorseggia prende il posto della taverna, anche nei romanzi dell’Ottocento. Consumatori abituali di caffè sono Honoré de Balzac e Victor Hugo, come prima di loro Diderot. Vienna è la città europea in cui più a lungo hanno resistito i caffè nati alla fine del Seicento e nei quali si recano i grandi scrittori della Finis Austriae per mettere su carta i loro pensieri, leggere e discutere: Musil, Canetti, Kraus. Ma come ogni invenzione moderna, dal treno al cinema, anche il caffè finisce per privatizzarsi: si consuma in casa, da soli o con la propria famiglia.
Nei romanzi diventa la bevanda preferita di detective e poliziotti: Maigret lo apprezza e si ferma volentieri a consumarne una tazzina, perché schiarisce le idee, aiuta a riflettere e forse anche a scoprire i colpevoli.
Alfredo Zavanone

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