Colesterolo alto, ipertensione, scompenso cardiaco: i tre nemici del cuore si battono con la prevenzione
In Italia un decesso su tre è imputabile alle malattie cardiovascolari, in primis infarto del miocardio e ictus. Gli esperti: “Abbiamo armi terapeutiche efficaci per contrastarli, ma è necessario combattere l’inerzia terapeutica e la scarsa aderenza dei pazienti alle terapie”.


(AGR) In Italia un decesso su tre è imputabile alle malattie cardiovascolari, in primis infarto del miocardio e ictus, che continuano ad essere la prima causa di morte nel mondo occidentale. Silenti e troppo spesso sottovalutate, l’ipertensione arteriosa e l’ipercolesterolemia ne sono una causa diretta: non semplici fattori di rischio ma condizioni patologiche che, se non tenute sotto controllo, aumentano significativamente le probabilità di andare incontro a un evento cardiovascolare.
Inoltre, se trascurate, possono influenzare in maniera sfavorevole l’aspettativa di vita dopo un infarto e favorire l’insorgenza di altre condizioni cliniche complesse come lo scompenso cardiaco, malattia caratterizzata da un deterioramento della funzione di pompa del cuore che impedisce il giusto apporto di sangue all’organismo.
Si stima che oltre 10 milioni di italiani, un terzo della popolazione adulta, abbiano livelli di colesterolo ‘cattivo’ (LDL) superiori alla norma, e che addirittura due terzi - 16 milioni di persone - soffrano di pressione alta. Il 2% della popolazione soffre di scompenso cardiaco, che nella maggior parte dei casi insorge in pazienti anziani gravati da altre malattie croniche, rappresentando la prima causa di ricovero ospedaliero per gli over-65. Il quadro epidemiologico è gravato da livelli ancora troppo bassi di aderenza terapeutica, con almeno il 50% dei pazienti che non assume i farmaci in modo conforme alle indicazioni del medico. Si stima che in Europa l’aderenza farmacologica subottimale causi circa 200.000 decessi l’anno e fino al 50% dei ricoveri per malattie cardiovascolari, con un impatto anche sui costi sanitari1. In tal senso, aumentare la percezione del rischio per la propria salute e ridurre la complessità del regime terapeutico rappresentano due interventi decisivi per migliorare la qualità di vita dei pazienti.
Sull’importanza di mettere in atto strategie efficaci di prevenzione e di gestione a 360 gradi dei pazienti a rischio cardiovascolare si sono confrontati a Milano autorevoli esperti della Cardiologia italiana nel corso dell’evento “3H - Hypertension, Hypercolesterolemy, Hearth Failure”, organizzato con il contributo non condizionante di Neopharmed Gentili, azienda farmaceutica storicamente impegnata in ambito cardiometabolico e pioniera nello sviluppo di soluzioni terapeutiche innovative in grado di migliorare l’aderenza terapeutica e la gestione del rischio cardiovascolare.
Tra i temi al centro del confronto, i nuovi target terapeutici suggeriti dalle Linee guida internazionali2,3 e il ruolo della medicina personalizzata per migliorare gli outcome clinici e ridurre il rischio di mortalità, puntando inoltre a semplificare l’assunzione delle terapie per i pazienti grazie alla disponibilità di nuove terapie di combinazione, con particolare riferimento al trattamento di ipertensione e ipercolesterolemia.
“È ormai ampiamente dimostrato che il colesterolo legato alle lipoproteine a bassa densità (C-LDL, il cosiddetto ‘colesterolo cattivo’) non è semplicemente un elemento che predispone alle malattie cardiovascolari, ma è la causa principale di sviluppo e progressione della malattia aterosclerotica, cioè l’ostruzione dei vasi arteriosi, condizione alla base di infarto, ictus e insufficienza cardiaca”, spiega Furio Colivicchi, Direttore UOC Cardiologia Clinica e Riabilitativa, Presidio Ospedaliero S. Filippo Neri di Roma.
“Nelle persone sane, i livelli di colesterolo LDL devono essere inferiori ai 115 mg/dL, mentre nei soggetti ad elevato rischio cardiovascolare, ad esempio persone con ipertensione o che hanno già avuto un infarto, i valori devono essere tenuti almeno al di sotto di 55 mg/dL. Quanto più si riducono i livelli di colesterolo LDL, attraverso un intervento terapeutico appropriato, tanto minore sarà il rischio di eventi cardiovascolari. Il trattamento dell’ipercolesterolemia è uno dei migliori esempi di terapia personalizzata perché abbiamo a disposizione diversi farmaci efficaci, il cui impiego varia in relazione ai livelli di colesterolo e al profilo di rischio del paziente. La terapia di combinazione statine-ezetimibe si sta affermando come la prima scelta di intervento farmacologico contro l’ipercolesterolemia. Ma il beneficio terapeutico è strettamente correlato all’aderenza alle cure, ed è necessario lavorare su questo fronte per aumentare la consapevolezza dei pazienti sulla pericolosità del ‘colesterolo cattivo’, seppur in assenza di sintomi evidenti”.
Non a caso, infatti, colesterolo alto e ipertensione arteriosa sono definiti ‘killer silenziosi’ perché non danno manifestazione di sé fino a quando non provocano gravi complicazioni, determinando molto spesso diagnosi tardive e aumentando il rischio di danni d’organo.
“L’ipertensione arteriosa è in aumento in quanto malattia legata all’invecchiamento: avere la pressione alta vuol dire avere maggiore stress sui vasi e sul cuore, esponendo l’individuo a un rischio elevato di infarto e ictus. La pressione ideale dovrebbe essere 130/80 mm Hg, il che vuol dire una pressione sistolica (la "massima") non superiore a 130 mm Hg e una pressione diastolica (la "minima") non superiore a 90 mm Hg. Oggi possiamo contare su opzioni terapeutiche efficaci per contrastare l’ipertensione e gli studi hanno dimostrato che basta una riduzione di 5 mm Hg della pressione arteriosa per diminuire del 10% il rischio di eventi cardiovascolari maggiori”, afferma Stefano Carugo, Professore Associato di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università degli Studi di Milano. “Combattere l’inerzia terapeutica è uno dei principali obiettivi per la classe medica. In tal senso, le Linee guida internazionali raccomandano di procedere tempestivamente con le terapie di associazione prefissata di più farmaci anti-ipertensivi che si sono dimostrate più efficaci per arrivare più rapidamente a target. Un’attenzione particolare va riservata alla popolazione femminile, affinché le donne non trascurino il proprio rischio cardiovascolare, consentendo di ridurre l’impatto della mortalità per infarto, più alta di quella maschile”.
“L’ipertensione arteriosa - aggiunge Stefano Taddei, Professore Ordinario di Medicina Interna, Università di Pisa - è la prima causa di morte al mondo, superiore alla mortalità causata dai tumori. Tuttavia, ciononostante, resta una malattia sottovalutata e sottostimata, aspetto che peggiora la prognosi dei pazienti. Dopo i 55-60 anni, 1 persona su 2 è ipertesa. Oltre all’età, altri fattori di rischio per lo sviluppo di ipertensione sono l’ereditarietà, l’obesità, errati stili di vita e la presenza malattie renali o endocrine. Quest’ultime possono favorire l’ipertensione anche in fasce di popolazione più giovani. La scarsa aderenza alle terapie resta uno dei principali ostacoli al raggiungimento di un buon controllo della pressione arteriosa, che riguarda solo il 25-30% dei pazienti. È ormai dimostrato che l’aderenza peggiora all’aumentare del numero di farmaci da assumere, e in questo possono venire in aiuto le terapie di combinazione di farmaci antipertensivi, ampiamente utilizzate nella pratica clinica. La possibilità per i pazienti di assumere più principi attivi in un’unica compressa rappresenta un importante vantaggio per il miglioramento della compliance e, quindi, dell’efficacia della terapia con conseguente miglioramento della prevenzione degli eventi cardiovascolari”.
Per via dell’invecchiamento della popolazione, anche lo scompenso cardiaco ha assunto dimensioni sempre più rilevanti. Grazie alle cure, oggi è possibile rallentarne il decorso, ma è necessario agire precocemente per ridurre l’impatto della malattia sulla qualità di vita dei pazienti e sul rischio di ospedalizzazioni.
“Lo scompenso cardiaco insorge in seguito a un danno del muscolo cardiaco, generalmente come conseguenza di un infarto miocardico o di una lunga storia di ipertensione arteriosa, determinando l’incapacità del cuore di assolvere alla normale funzione contrattile di pompa. Si tratta di una malattia complessa che nella maggior parte dei casi insorge in pazienti con comorbidità, che avvertono una sensazione costante di affanno, anche a riposo nei casi più gravi, dovuta all’incapacità del cuore di garantire il corretto apporto di sangue all’organismo”, spiega Andrea Di Lenarda, Direttore della SC Patologie Cardiovascolari, Dipartimento Specialistico Territoriale, ASUGI, Trieste. “Nei pazienti che dimostrano una disfunzione del muscolo cardiaco, è fondamentale intervenire in maniera tempestiva per evitare che il danno peggiori e che lo scompenso cardiaco progredisca. La rete dei servizi territoriali svolge un ruolo cruciale per intercettare precocemente i pazienti, migliorare la presa in carico post-dimissione e l’aderenza terapeutica, che resta una delle principali criticità, nonostante la disponibilità di terapie efficaci nel controllare la malattia e ridurre ospedalizzazioni e decessi. Tra queste, gli anti-aldosteronici hanno dimostrato in numerosi studi clinici di essere in grado di prevenire le complicanze sia nello scompenso cardiaco cosiddetto “a funzione sistolica ridotta”, cioè quando si riduce la contrattilità del cuore, sia nello scompenso “a funzione sistolica preservata”, cioè quando il ventricolo sinistro mantiene la sua capacità di contrazione ma, presentando un aumentato spessore e rigidità delle pareti (ipertrofia miocardica), manifesta una difficoltà della fase di riempimento con conseguente congestione polmonare”.
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